25.6.06

L'enciclica di Ratzinger

A gennaio di quest'anno, Ratzinger ha pubblicato la sua prima enciclica.
Al proposito c'era molta curiosità: si voleva capire se e quanto Ratztinger si sarebbe allontanato dall'esempio di Wojtyla.

Dato che un evento del genere era anche un'ottima occasione per fare un primo bilancio dell'attività del nuovo papa, mi sono andato a leggere l'enciclica e ne ho scritto sulla rivista Rinascita Flash.

Buona lettura,

Mauro.

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L’enciclica di Ratzinger

È passato ormai quasi un anno dall’elezione di Joseph Ratzinger al soglio pontificio (era il 19 aprile 2005), e si può quindi tentare di fare un primo bilancio del suo pontificato.
A maggior ragione dopo la pubblicazione, il 25 gennaio 2006, della sua prima enciclica (“Deus Caritas est”, nella traduzione italiana “Dio è amore”).

Partiamo proprio dall’enciclica.

In tutta sincerità, il giudizio su detta enciclica potrebbe essere molto breve. Basterebbe dire: “Una delusione”. Dal punto di vista laico, ma anche dal punto di vista teologico.
Ma perché è una delusione?

Il punto centrale attorno a cui ruotano le pagine dell’enciclica (scaricabile, per chi fosse interessato, dal sito www.vatican.va) è l’amore di Dio, o meglio il fatto che Dio è l’amore stesso.
Questo concetto, per un credente, non è certo una novità e neanche un così astruso da aver bisogno di essere spiegato. Per chi ha fede è una verità semplice e lampante. Oltretutto sono già state scritte in passato pagine splendide sull’argomento, sia da religiosi che da laici, e quasi ogni sacerdote del mondo ha prima o poi tenuto un’omelia sul tema.
Perché quindi il papa (o meglio chi scrive per lui – non dimentichiamo che, nonostante le affermazioni contrarie del Vaticano, le encicliche, come i discorsi papali, vengono scritti dalla segreteria del papa e questi fornisce al massimo delle linee guida per la scrittura oltra ad apporre alla fine sigillo e firma) ritiene di dovervi dedicare addirittura un’enciclica?
Il commento ironico che potrebbe venire spontaneo, e cioè che fosse a corto di argomenti, non regge. Le encicliche non hanno scadenze obbligatorie, quindi se un papa non ha nulla da dire, o non vuole esprimersi, è sufficiente non scrivere. Nessuno lo condannerebbe.

Quindi Ratzinger aveva qualcosa da dire. Cosa?
Il senso vero dell’enciclica lo si legge tra le righe, come spesso nei documenti vaticani, però è evidente, quasi esplicito.
L’enciclica è un ribadire la linea dura del Vaticano sui temi matrimoniali, sessuali e simili.
La prima parte comincia con una specie di studio semantico della parola “amore”. Cita le tre varianti greche del vocabolo (“eros”, “philia” e “agape”), spiegando come la Bibbia prediliga la terza a scapito soprattutto dell’”eros”. E questo già ci dice chiaramente in che direzione vuole andare.
L’apertura del discorso sulle differenze tra “eros” e “agape” (la “philia”, cioè l’amore inteso in senso di amicizia, sembra interessare poco a Ratzinger) è tutta un programma: «All’amore tra uomo e donna, che non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo s’impone all’essere umano». E così tutti i rapporti che non rientrano nel classico concetto matrimoniale vaticano sono sistemati. Non serve neanche condannarli perché in realtà neanche esistono, sono forzature che gli esseri umani in realtà neanche vogliono.
Ancora più interessante è la conta di quante volte la parole “eros” è presente nella Bibbia: solo due volte nell’antico testamento e nessuna nel nuovo. Come dire: l’amore non erotico è meglio.
Ratzinger dimentica però che l’antico testamento è stato scritto originariamente in gran parte non in greco e che la traduzione greca è già di epoca cristiana. Il papa ha contato la parola sbagliata. Perché non ci dice come erano scritti gli originali aramaici, per esempio? Perché non si preoccupa neanche di dire che lui non ha preso in considerazione l’origine prima dei testi?

Passato questo primo scoglio si prosegue nella lettura e si scopre il nulla. La prima parte è un “taglia e cuci” di citazioni storiche e letterarie senza nulla di concreto, con l’unico scopo prima di confutare l’affermazione freudiana (in realtà corretta, per quanto un po’ estremizzata) secondo cui il cristianesimo ha ucciso l’eros e poi di dimostrare che di qualsiasi tipo di amore si parli esso tende alla fine per forza a Dio.
Scopi entrambi falliti, almeno nell’enciclica, in quanto inseguiti con affermazioni e non con dimostrazioni (e poi, sinceramente, a copiare passi dei profeti e dei vangeli basta un copista, non serve un papa).

Nella seconda parte dell’enciclica entra in gioco esplicitamente la chiesa, quale “comunità d’amore”.
A parte il fatto che sulla chiesa si potrebbe dire di tutto, tranne che sia una comunità d’amore (chiedere, per esempio, conferma agli indios dell’America latina o alle vittime dell’Inquisizione), le pagine che compongono questa parte sono una deludentissima rimasticatura di scritti dei papati precedenti e, forse soprattutto, della CEI.
Non vale quindi la pena di analizzare in dettaglio la cosa, a parte un ben preciso punto, il punto 28, che tocca il rapporto tra Stato e chiesa.

Si comincia con «Il giusto ordine della società e dello Stato è compito della politica». Giusto, ineccepibile. Quindi sarebbe il caso di far sapere a Ruini (che detta le linee guida al governo italiano) e a Berlusconi (che finanzia le scuole cattoliche togliendo fondi a quelle pubbliche) che la chiesa si occupa di religione e lo Stato di politica. Non viceversa.
Verrebbe quasi da chiedersi se Ratzinger è a conoscenza delle ingerenze continue e profonde della chiesa nella politica italiana o se invece viva su una nuvoletta dove non gli arriva notizia di nulla.
La frase «Alla struttura fondamentale del cristianesimo appartiene la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, cioè la distinzione tra Stato e Chiesa» appare sinceramente come uno scherzo di cattivo gusto, alla luce del comportamento del Vaticano in occasione degli ultimi referenda e delle continue esternazioni di Ruini in campo politico.
Però più avanti Ratzinger getta la maschera, quando parla della necessità della politica di adoperarsi per la giustizia, il che sarebbe anche giusto e condivisibile se non aggiungesse «In questo punto politica e fede si toccano». Insomma, la quadratura del cerchio: la chiesa non deve fare politica, ma la politica deve basarsi sulla fede.
Dobbiamo forse escludere atei, agnostici e simili dall’esercizio della politica?

L’enciclica prosegue con la descrizione dell’impegno della Chiesa per la giustizia e la carità. Tutto sommato, una raccolta di banalità leggibili su qualsiasi bollettino parocchiale del mondo.

La delusione più grossa, arrivati alla fine della lettura, non è comunque politica o religiosa, ma culturale.
Da una persone con gli studi e il passato di Ratzinger ci si sarebbe aspettato qualcosa di più profondo, di più articolato (al di là del condivisibile o meno), non una raccolta di banalitá che non dicono quasi nulla (e quel poco che dicono non è comunque nuovo).
Troppe citazioni e troppo pochi pensieri.
Ma forse, guardando il passato recente di Ratzinger, meglio così.

Sul giudizio di questo quasi primo anno di papato pesano negativamente anche altri fatti, non solo l’enciclica.
Per ragioni di spazio mi limiterò qui a un brevissimo panorama, rinviando un esame più dettagliato al futuro, se se ne dovesse presentare l’occasione.

Dell’ingerenza nella politica italiana si è detto sopra.
Riguardo al campo sociale questo papato conferma tutte le chiusure del papato precedente, con particolare riguardo a temi come aborto ed eutanasia, dove forse si sta confermando ancora più duro nei fatti di Wojtyla, pur usando parole più morbide.
Nell’orientamento generale del governo della chiesa si orienta al passato più remoto, alla chiesa antecedente alla prima scissione (quindi prima del 1054), cioè alla chiesa depositaria dell’unica assoluta verità. Non solo celeste, ma anche terrena.

E, a dimostrazione di quanto il Vaticano tenga in considerazione il dialogo interconfessionale, ha ricevuto e lodato in udienza privata il 26 agosto 2005 la cristianissima Oriana Fallaci, cultrice dell’odio contro l’Islam e della superiorità della cultura cristiana.

Unico segnale positivo per ora è l’apertura a un certo dialogo con coloro che un tempo sarebbero stati giudicati eretici, come il teologo Hans Küng o il vescovo scomunicato Bernard Fellay.

Sinceramente, un po’ poco.

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